Abbiamo incontrato Giulio Iacchetti nel suo studio di Milano mentre è alle prese con la preparazione di una mostra dedicata al cibo che inaugurerà alla fine di aprile all’ADI Design Museum. Al momento sta studiando una sezione dedicata al caffè, naturale conseguenza della sua conoscenza delle caffettiere di cui è un grande collezionista, presentate di recente in una piccola mostra durante la Courmayeur Design Week-end. È altresì collezionista di tutti quegli oggetti, spesso senza autore, che ci circondano nella quotidianità, sintesi di valori formali, tecnici e materici che da sempre caratterizzano il suo lavoro. È stata una occasione per parlare di decorazione, pur essendo il designer della sintesi.
Incontrare Giulio Iacchetti significa immergersi in un universo di oggetti e in una profonda riflessione sulla progettazione di prodotti di diversa tipologia, funzione e provenienza. Questo perché Giulio ama raccogliere oggetti che popolano il nostro quotidiano, le nostre case, e che influenzano il suo approccio al design attraverso un’attenta ricerca dei dettagli.
Dettagli che, nelle sue mani, diventano una raffinata sintesi decorativa, trasformandosi nell’essenza stessa dei suoi progetti e del suo ruolo di direttore artistico. Ne è un esempio il suo lavoro di direttore artistico, insieme a Matteo Ragni, per Abet Laminati dove il desiderio di attingere alla storia come fonte d’ispirazione lo porta a riscoprire e valorizzare progetti del passato. In questo caso, il recupero di materiali, come il Diafos, diventa un’opportunità per reinterpretarlo con nuove applicazioni, dando loro una seconda vita.
Al termine della nostra chiacchierata, infatti, ci dice che: «L’uomo ha da sempre il bisogno di ornare ciò che lo circonda, come dimostrano i gioielli e l’abbigliamento. Non si comprende, dunque, la diffidenza nei confronti della decorazione applicata agli oggetti. Oggi più che mai, considerando che i mondi dell’arte, della grafica, della moda e del design sono strettamente connessi e in costante dialogo.
Si può certamente scegliere di progettare oggetti privi di decorazione quando la forma è già sufficientemente espressiva. Tuttavia, quando la decorazione non è un mero abbellimento, ma parte integrante del progetto, essa diventa un elemento essenziale dell’oggetto stesso. Personalmente, trovo affascinante esplorare le texture delle superfici».
La considerazione delle superfici degli oggetti è generalmente un tema poco considerato dai progettisti. Per te che sei molto attento all’aspetto produttivo è parte del processo progettuale? Nasce dalla passione o dall’esperienza pratica?
All’inizio della mia carriera non ho avuto subito questa consapevolezza. Quando sei un giovane progettista, sei così concentrato sulla realizzazione dell’oggetto che tendi a considerare certi aspetti, come le finiture o persino il materiale stesso, come elementi secondari.
Ad esempio, dire “legno” è un concetto generico, ma quanti distinguono realmente faggio, acero, o tra poro aperto e poro chiuso? Queste distinzioni fanno parte di un percorso di affinamento che si sviluppa con l’esperienza, spesso anche attraverso errori. È un processo graduale che ti porta a cogliere sempre più dettagli e a comprendere quanto siano fondamentali.
Difficilmente, all’inizio, si ha una piena consapevolezza dell’importanza di ogni aspetto del progetto, dal materiale alla superficie, dal colore alla texture. Ma con il tempo ci si rende conto che tutto concorre a definire l’identità di un oggetto, compresa la narrazione che lo accompagna, la fotografia che lo rappresenta e il modo in cui viene comunicato. All’inizio, almeno per me, tutto sembrava speciale e scontato, senza la necessità di andare oltre. Solo con il tempo ho imparato a sviluppare un’attenzione più profonda verso ogni dettaglio.
Quando valuti la produzione di un tuo prodotto, per esempio l’uso di un materiale o di una finitura, hai un atteggiamento collaborativo con i reparti produttivi delle aziende?
Inizialmente, mi bastava vedere l’oggetto finito. Poi ho capito che, essendo un lavoro autoriale, mi viene richiesto un intervento più profondo, che non è sempre facile esprimere. Per questo, invece di impormi con idee categoriche, preferisco esplorare più strade e valutare le possibilità. Chi sono io per dire che deve essere fatto in un solo modo? A volte la visione non è immediatamente chiara.
Quando collaboro con le aziende, mi interessa anche l’aspetto produttivo. Certo, il designer è il regista del progetto e ha l’ultima parola, ma spesso il processo è più un “sia” che un semplice “sì”: ciò che immagino inizialmente può evolversi grazie ai suggerimenti legati alla logica della lavorazione e del materiale. Non bisogna confondere un capriccio con una scelta progettuale sensata.
Cerco sempre di evitare decisioni forzate. Se un metallo è adatto alla lucidatura, allora bene, ma se un materiale non si presta a un certo trattamento e richiede sforzi eccessivi per forzarlo a essere qualcosa che non è, il problema non è il materiale, ma la scelta iniziale. Per me, contrastare la logica e il buon senso in questo modo non ha senso: preferisco rispettare la natura dei materiali e valorizzarne le caratteristiche.
Sei sempre stato attratto dal “saper fare”?
La mia formazione è stata molto orientata all’esperienza diretta. Mio nonno era un intagliatore di legno e lavorava spesso il cirmolo, un materiale facile da intagliare. Tuttavia, il legno rimaneva poco visibile, perché le sue creazioni – soprattutto cornici – venivano poi gessate, lisciate e dorate. Alcuni suoi campioni sono ancora conservati, tra cui oggetti dal forte gusto barocco, come candelabri intagliati.
Fin da allora ho iniziato a conoscere la matericità dei materiali. Un ruolo fondamentale lo aveva anche mia nonna, che si occupava della doratura, un processo delicatissimo e sofisticato. Dopo aver preparato la superficie con il gesso, applicava sottilissimi fogli d’oro, una pellicola preziosa che veniva chiamata “oro zecchino”, anche se probabilmente non lo era. Infine, una patina veniva stesa per conferire all’oggetto un effetto anticato.
Dall’altro lato, mio padre lavorava il metallo, era interessato soprattutto all’aspetto funzionale, alla precisione matematica, ma di certo non a risolvere l’aspetto estetico.
Ti interessano i dettagli?
Fin da bambino ho sempre avuto un’attrazione per gli oggetti ben fatti, curati e belli. Ripensando alla mia infanzia, ricordo con chiarezza un coltello che vidi alla fiera del paese. Era un oggetto destinato ai ragazzi, anche se abbastanza pericoloso, eppure mi colpì per il design. Non era uno di quei coltelli con il manico in corno di cervo né un coltellino svizzero, ma un modello con il manico fisso in termoplastica nera, dal disegno elegante e dalla lama ben proporzionata. Ancora oggi potrei disegnarlo perfettamente.
Questa attenzione ai dettagli e alla qualità degli oggetti ha sempre fatto parte di me. Ricordo che, in occasione della mia prima comunione, chiesi ai miei genitori un orologio da tasca. Era una scelta insolita per un bambino negli anni ‘70, quando questi orologi erano già considerati antiquati. Ma io non ne volevo uno qualsiasi: desideravo un modello pulito, essenziale, senza decorazioni superflue. Mio padre si impegnò a trovarne uno che rispondesse esattamente alla mia richiesta, un orologio svizzero dal design raffinato e minimale che è ancora qui con me.
Già da piccolo, quindi, avevo idee molto precise su ciò che mi piaceva e, forse ancora di più, su ciò che non mi piaceva. Non mi bastava desiderare un oggetto generico – un orologio, una penna, un’auto – doveva essere quel determinato orologio, quella penna. Non si trattava di lusso o costo, ma di una ricerca della coerenza e dell’equilibrio nel design. Questo atteggiamento, che alcuni potrebbero considerare quasi ossessivo, è diventato la base del mio lavoro: non mi accontento di un oggetto qualunque, cerco l’oggetto giusto.
Quindi il tuo processo progettuale avviene per sottrazione, un po’ al contrario di quanto succede quando si utilizza l’intelligenza artificiale….
Quando progetto, ho ben chiaro cosa non voglio che un oggetto sia, piuttosto che sapere già dall’inizio quale sarà il risultato finale. Il processo creativo parte proprio dall’eliminazione di ciò che non mi interessa, per poi arrivare gradualmente alla soluzione giusta. È sempre così: un percorso fatto di esclusioni, tentativi, errori e riflessioni. Come dice la poesia, si definisce ciò che si è anche attraverso ciò che non si vuole essere.
Se mi togli il piacere di questo percorso, fatto di sperimentazione e scoperte, l’intero processo perde di significato. Non sto parlando contro l’intelligenza artificiale, ma semplicemente non riesco a sentirmi coinvolto da essa. Non mi sorprende, perché queste tecnologie, per quanto impressionanti nell’immediato, tendono a esaurire rapidamente il loro impatto emotivo. Non parlo della loro evoluzione nel tempo, ma dell’effetto attuale, che trovo prevedibile e, in fondo, piuttosto standardizzato.
Pensi che seguire le tendenze, come il colore dell’anno, possa influenzare il design in modo superficiale o credi che abbia un valore più profondo?
In fondo, questa dinamica non mi dispiace affatto, perché so che posso usare qualsiasi colore tranne quello scelto come tendenza.
Fa parte di quel processo di selezione e scarto: viene quasi naturale escluderlo, proprio perché so che molti si affretteranno a seguirlo senza pensarci troppo. C’è sempre chi aspetta che una voce autorevole si esprima per poi accodarsi, io preferisco fare esattamente il contrario.
Questo dimostra chiaramente che il designer-vate, colui che trae ispirazione dal cielo, non esiste. Certo, si può avere una particolare sensibilità, ma ciò che mi interessa davvero è la stretta connessione tra una forma e il colore che meglio la valorizza.
Chi lavora nel settore automobilistico lo sa fare molto bene: le auto possono essere disponibili in tantissimi colori, ma quando viene lanciato un nuovo modello, c’è sempre una tonalità che lo esalta più di tutte. Quel colore sembra essere stato pensato apposta per quella forma, anche se poi il cliente finale potrebbe sceglierne un altro.
Questa scelta non è casuale, c’è uno studio approfondito dietro, che unisce forma, colore e filosofia del design, ovviamente con una componente di marketing.
Anni fa, seguivo questa ricerca con più assiduità. Andavo nelle concessionarie a ritirare le palette di colori delle nuove auto, perché erano sempre frutto di un lavoro attento, pensato per modelli che dovevano durare almeno un decennio. In un certo senso, sfruttavo le ricerche cromatiche fatte dalle case automobilistiche per i miei progetti.
Tuttavia, entrando più a fondo in questo mondo, ho capito che non fa per me. C’è chi passa le giornate intere a studiare finiture e tonalità, un po’ come quei designer coreani che analizzano cento diverse versioni di un frigorifero. È un approccio che rispetto, ma che non condivido del tutto.
Alla fine, molte scelte sembrano più costruite che autentiche, e il confine tra verità e narrazione diventa molto sottile.