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18° Biennale di Architettura a Venezia: cosa non ci lascia (purtroppo)

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Chi è abituato ad aggirarsi ogni anno per la Biennale, sia essa di architettura o d’arte, ci ha fatto un po’ il callo nel rimanere – sul momento – perplesso. Solo dopo una sana meditazione su ciò che si è visto, è possibile tirare le conclusioni che non siano frutto dell’impeto o della stanchezza dei chilometri percorsi.

Atteniamoci per un momento alla sezione centrale curata da Leslie Lokko dal titolo speranzoso The Laboratory of the Future. A lei si deve, per lo meno, di aver tenuto la barra dritta e portato sul piatto una dichiarazione forte: ampissimo – se non esclusivo – coinvolgimento delle comunità emigrate africane (limitatamente all’America) in una visione finalmente non bianco centrica, ma anche uno spunto di riflessione sul cambiamento climatico e sul futuro che ci stiamo distruggendo.

Una narrazione che sulla carta da grandi speranze ma nei fatti qualcosa non torna.

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Come scrive Vittorio Magnago Lampugnani in questo articolo (https://www.domusweb.it/it/speciali/biennale-architettura-venezia-2023/2023/biennale-venezia-2023-indignazione-senza-architettura.html) uscito su Domus “impossibile non rimanere scossi dalla loro forza concettuale e visiva (dei progetti, ndr), ma anche sconcertati dalla scarsità di approcci propositivi. I progetti rimangono diagnosi o denuncia.”

Manca palesemente ciò che è chiesto, a nostro avviso, all’architettura rispetto ad altre arti. Quella di dare una strada, una definizione – non si chiedono subito risposte – si chiedono almeno idee concrete che, seppure embrionali, sono in grado nel tempo di attecchire e tradursi in edificio, soluzione, oggetto.

Lo dice senza troppi giri di parole Luigi Prestinenza su Artribune che individua 5 punti deboli di questa Biennale. In realtà basta riprenderne uno che li riassume tutti “mai come in questa Biennale è mancata la voglia di spiegare il senso del tutto. Se non ci credete, provate a leggere le didascalie traendone un senso compiuto. Puro architettese, infarcito di termini che si usano nelle accademie anglosassoni per fare fuffa. Non male come apertura alle culture prima soppresse e oggi emergenti”.

Questa 18esima biennale è una fotografia che rimane tale, un quadro di gesti dell’uomo (sono stati scelti quasi sempre quelli meschini) di cui prendere atto, un trattato a volte di geografia e storia delle culture.

A tratti ci è sembrato quasi di vedere le spoglie della precedente Biennale d’Arte – e in effetti alcuni padiglioni lo hanno dichiarato, non solo la Germania.

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I materiali, a parte qualche cenno sui temi del riuso e dei materiali cari a specifiche comunità visti nel Padiglione britannico, non c’è un gran pensiero su uno dei temi che oggi dovrebbero stare molto a cuore a chi progetta edifici. Lo sfruttamento di territorio di cui tanto si vede trai Giardini e l’Arsenale poteva essere un volano per parlare anche di materiale, di scarsità e di ottimizzazione. 

Ma l’architettura d’altronde in questa Biennale è un tema collaterale.

Ci rimane solo un dubbio, da quando agli architetti viene chiesto di sconfinare nell’arte pura?

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